Di cereali, legumi, dolce o salata, con o senza carne: l’antichissima cuccìa è un piatto dai caratteri mistico-religiosi rimasta nella memoria e nella tradizione gastronomica del Sud Italia ma non solo
Secondo il famoso studioso tedesco Gerard Rohlfs il nome cuccìa deriva dal greco volgare tà koukkìa cioè “chicchi”, “grani”.
Rohlfs la identifica come “una specie di minestra di grano bollito, condita spesso con vino cotto che si mangia in occasione di alcune solennità religiose”.
La cuccìa come la conosciamo noi è infatti quel piatto a base di cereali (grano, farro, granturco ecc.) che si prepara in occasione di festività come il giorno di Santa Lucia o di Natale, soprattutto nel Sud Italia.
Una zuppa povera del mondo contadino che ritroviamo ad esempio in Sicilia, in Calabria, in Basilicata, in Cilento ed ogni zona ha la sua ricetta; c’è chi la fa con ceci, fave o cicerchie bolliti o con l’aggiunta di carne.
Presso i popoli del passato ai semi, ai grani e alle bacche è sempre stato dato un valore non solo alimentare ma rituale, ben augurale e propiziatorio.
Le origini della cuccìa sono forse da ricercare nell’antica Grecia; infatti nel terzo giorno delle Antesterie (‘Ανϑεστήρια)[1], le feste dedicate a Dioniso, in tutte le case si cucinava la panspermia (semi di ogni pianta).
La panspermia presso gli Ateniesi era legata al culto dei defunti, offerta durante le esequie ad Hermes (Ermete Ctonio), il dio che conduce le anime agli inferi e fa dunque da mediatore fra l’aldilà e la terra[2].
Era una sorta di torta di cereali vari amalgamati e cotti con il miele[3], un’associazione tra cibo dei vivi e cibo dei morti.
Celebrare le divinità con fave cotte è tipico anche delle Pianèpsia[4] in onore di Apollo (da πύανος ‘fava’ e ἕψω ‘cuocere’) e in ricordo di ciò che mangiarono i fanciulli salvati a Creta da Teseo.
Infatti, l’usanza di bollire i vari generi di legumi nacque dal fatto che quei giovani mischiarono tutto ciò che era rimasto delle loro provviste cucinandolo in un pentolone e consumandolo assieme.
Secondo lo scrittore calabrese Vincenzo Dorsa[5] il termine cuccìa sarebbe rimasto dai greci bizantini presso i quali coucia corrisponderebbe alla voce classica κύαμος (cuamos), cioè appunto ‘fava’[6].
La cuccìa è presente anche nella cucina di paesi come Russia, Ucraina e Bielorussia: alla Vigilia di Natale e per l’Epifania si fa la kut’ja, un semolino di miglio ed orzo o di chicchi non frantumati di riso o frumento[7].
Si mangia anche in Serbia (koljivo), in Romania (la colivă) e in Bulgaria (kolivo); in Grecia si chiama kollyva[8] (κόλλυβα), realizzata per la commemorazione dei defunti o durante i funerali ortodossi.
Per molti meridionali la cuccìa è quella che solitamente si fa il 13 dicembre; antiche feste e condivisione del cibo ci portano dunque alle nostre tradizioni in cui è possibile trovare diverse varianti della stessa preparazione.
La cuccìa più famosa è quella siciliana legata alla leggenda di Santa Lucia che avrebbe compiuto un miracolo durante una gravissima carestia che colpì la popolazione.
La santa siracusana fece arrivare in porto alcune navi cariche di grano; la gente corse a macinarlo rendendolo farina o lo mangiò in grani, semplicemente bollito. Da qui la cuccìa preparata in suo onore.
In Sicilia è un dolce della tradizione, molto sentita; è a base di grano ammollato per 3 giorni in acqua, bollito e poi mescolato alla crema di ricotta, arricchito con canditi, pistacchi o gocce di cioccolato.
In Basilicata ogni famiglia prepara la cuccìa la sera del 12 dicembre; la tradizione lucana vuole che Santa Lucia durante la notte imprima il suo segno su di essa e il giorno dopo la si condivide con amici e parenti.
Si fa col grano, le fave, i ceci e le cicerchie; rinomata è quella del caratteristico borgo di Castelmezzano (PZ), definito la perla delle cosiddette ‘Dolomiti Lucane’.
In Puglia invece la cuccìa è conosciuta come colva, coliba, ‘cicc’ cuott’ o ‘grano dei morti’ proprio perché si prepara in occasione del 2 novembre; la ricetta è molto simile a quella della kollyva greca.
È una sorta di insalata di grano ammollato e lessato, condita con noci, mandorle, chicchi di melograno e di uva, cacao e cannella, tipica della zona tra il nord barese e il foggiano.
Nel Cilento, a San Cristofaro frazione di Ispani in provincia di Salerno, gli ingredienti tipici della cuccìa sono il grano, il mais, i ceci, i fagioli e le lenticchie.
In Calabria abbiamo la cuccìa a base di grano cotto condita con il mosto cotto o quella salata con carne di maiale o di capra, come quella che si fa nei paesi presilani della provincia di Cosenza.
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In particolare, a Spezzano Sila la cuccìa viene realizzata non a dicembre ma a settembre in onore della festività del santo patrono, San Francesco di Paola, e la sua preparazione richiede ben tre giorni.
Il grano si mette a mollo in abbondante acqua il venerdì; il sabato lo si fa cuocere per 5-6 ore a fuoco lento, solo con acqua; a parte poi si fa bollire in acqua leggermente salata la carne di capra e di maiale.
Dopo la cottura del grano, si scola l’acqua e la si sostituisce col brodo di carne nel quale i chicchi resteranno, sempre sul fuoco per un’altra ora nel tinìellu, il tradizionale calderone in terracotta.
Si narra che questa ricetta nasca da una storia legata alla costruzione del Convento di San Francesco di Paola a Pedace (Cs) nel 1617, sui resti del cenobio della confraternita di Santa Maria della Pietra.
I monaci francescani, poveri, non potendo offrire molto ai manovali che costruivano il convento, cucinavano la cuccìa con la carne ricavata dalle varie parti del maiale tenuta sotto sale e il grano, frutto dell’elemosina.
Bibliografia e sitografia
Natale Spineto, La panspermia degli Anthesteria, Llu. Revista de Ciencias de las Religiones Anejo, 2004, XII, pp. 141-146
Sebastiano Rizza, Cuccìa, cibo di poveri e penitenti. L’interpretazione popolare di un fatto storico (Url pagina: http://digilander.libero.it/sicilia.cultura/cuccia-santalucia.pdf)
Vito Teti, Cuccìa, 12 dicembre 2018 (www.doppiozero.com)
www.treccani.com