Sono vini bianchi ma vinificati come i rossi: conosciamo meglio gli orange wines, detti anche vini macerati, ambrati, arancioni o skin contact che seguono la tradizione ancestrale dei qvevri georgiani
Sono di un giallo oro antico, topazio, tendente all’ambra e dai riflessi ramati: oggi i famosi orange wines, hanno conquistato i sensi e i palati di molti estimatori del vino.
Gli orange wines sono vini bianchi caratterizzati da complessità e struttura, grazie soprattutto alla presenza di tannini ma che non per questo mancano di freschezza e sapidità, anzi.
Ma vediamo da vicino cosa sono e come si producono.
I britannici e gli americani li hanno ribattezzati orange wines proprio per il loro bel color arancio, definito ‘il quarto colore del vino’: in Italia li chiamiamo anche vini macerati, arancioni, ambrati o skin contact.
Quest’ultimo termine si riferisce proprio alla tecnica di produzione di un vino orange, ovvero attraverso l’affinamento sulle proprie bucce.
In pratica il processo di vinificazione degli orange wines è quello dei vini rossi in cui dopo la pigiatura delle uve, il mosto resta a contatto con le sue bucce per l’estrazione di pigmenti ed antociani durante la macerazione.
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Un orange wine fermenta, macera e affina sulle bucce anche parecchi mesi; questo prolungato contatto dona colori inusuali, un ventaglio di sfumature odorose e sapori pieni.
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Questa tecnica di produzione ricalca uno stile ancestrale e affascinante che è tra le prime testimonianze della vinificazione dell’uva e che sopravvive ancora ai nostri giorni, quella dei qvevri georgiani.
I qvevri sono grandi vasi d’argilla tipo anfora, con una capienza che va dai 50-100 litri ai 2.000-5.000 litri anche se sono stati rinvenuti alcuni antichi esemplari con capacità addirittura attorno ai 10.000 litri.
Tradizionalmente sepolti nel terreno fino al collo, sono degli artefatti tipici di tutte le regioni della Georgia e soprattutto del Kakheti[1].
Prima dell’interramento la superficie interna dei qvevri viene rivestita talvolta con un leggero strato di cera d’api per limitare l’evaporazione e lo scambio con l’ambiente circostante.
La superficie esterna è invece ricoperta da una malta a base di calce[2]; è possibile trovare i vasi anche all’esterno ma solitamente sono interrati dentro le abitazioni.
In tal modo si garantisce al vino il mantenimento di una temperatura relativamente bassa sia durante la fermentazione che durante la maturazione e l’affinamento.
Questo metodo tradizionale di vinificazione dei qvevri georgiani è considerato come una delle conquiste e dei tesori culturali del paese.
Per salvaguardarla il 4 dicembre 2013 l’Unesco lo ha riconosciuto come Patrimonio intangibile dell’umanità.
A seconda della zona, in Georgia sono praticati metodi un po’ diversi fra loro; la differenza sta sostanzialmente nella quantità di vinacce aggiunte al mosto.
C’è il metodo ‘kakheto’ tipico della Georgia orientale dove bucce, raspi e vinaccioli (chiamati in georgiano chacha) stanno tutti a contatto col mosto.
Nel metodo ‘imereti’ utilizzato della zona occidentale la chacha è solo il 10%, senza raspi, mentre l’altro, il ‘kartli’, utilizzato nell’omonima zona, prevede l’utilizzo della chacha per circa il 30%.
Durante il periodo della macerazione le bucce subiscono la follatura quattro o cinque volte al giorno per ossigenare leggermente il vino, per raffreddarlo e anche per facilitare la precipitazione dei vinaccioli.
Dopo la fermentazione alcolica anche il cappello delle vinacce si deposita sul fondo del qvevri; grazie alla sua forma ‘a uovo’ solo poche restano in superficie.
Colmato poi con vino dello stesso tipo e chiuso leggermente con un coperchio di pietra o legno, si lascia completare la fermentazione malolattica.
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Il coperchio viene poi chiuso ermeticamente con argilla; in alcune zone quest’ultimo viene a sua volta coperto da un cumulo di terra che deve essere regolarmente inumidito, soprattutto in estate.
Tra i mesi di marzo e aprile avviene la svinatura e la decantazione in qvevri puliti, per un paio di mesi; dopodiché c’è il travaso in un’altra anfora per la maturazione che varia da un anno a più a circa 13°C costanti.
Nei qvevri il vino è prodotto e preservato naturalmente senza l’inoculo di lieviti selezionati o necessità di additivi.
I vini macerati con questo sistema sono vini dal carattere unico, con aromi e sapori particolari; sono vini che, grazie all’elevato contenuto di tannini che li rende molto stabili, hanno un alto potenziale di invecchiamento.
Preservano infine la loro caratteristica brillantezza creando legami con le proteine del vino ed evitando così l’intorbidimento. Con il metodo dei qvevri sono prodotti in zone di montagna anche vini spumanti naturali.
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Tornando agli orange wines oggi in Europa tra i maggiori produttori ci sono la Croazia, l’Austria, la Germania e l’Ungheria; oltreoceano ci sono anche gli Stati Uniti e la Nuova Zelanda.
In Italia l’antica tradizione dei macerati è presente in alcune regioni come, ad esempio, in Veneto o in Friuli-Venezia Giulia, quest’ultima nostro fiore all’occhiello per questa tipologia di vini.
Come è facile intuire per realizzare un buon orange wine sono necessarie uve buone e sane (solitamente sono biologiche o biodinamiche) e uve che siano tipologicamente adatte alle lunghe macerazioni.
Infatti, in Friuli le uve utilizzate sono la ribolla gialla e il friulano ma anche lo chardonnay e il sauvignon che hanno acini dalla buccia spessa e con una buona percentuale di sostanze coloranti.
Oltre a vitigni resistenti, gli orange wines necessitano di tanto lavoro da parte dei produttori, sia nell’attenta cura del vigneto sia nelle meticolose pratiche di cantina.
Gli orange wines sono vini bianchi diversi da quelli che beviamo solitamente; sono energici, hanno un naso ampio e complesso, un corpo importante dato dalla tannicità e da una spiccata mineralità e sapidità.
Per questo motivo si abbinano facilmente a piatti di pesce, al sushi, ai crostacei, alle carni come quella di agnello o di capretto, ai formaggi erborinati o a pietanze speziate come il cibo etnico.