A passeggio per la bella Napoli non si possono non assaggiare le sue tante specialità: parliamo del cuoppo, uno dei must dello street food partenopeo e della frittura napoletana
La frittura è la tecnica di cottura nell’olio o in un altro grasso bollente che rende il cibo croccante, saporito ed irresistibile. Ma ci siamo mai chiesti come e quando è nato il fritto?
Secondo le tesi più accreditate[1] sarebbero stati gli antichi Egizi ad introdurre la frittura nella loro alimentazione.
Sappiamo infatti che la utilizzavano per fare i dolci come quelli amati dal faraone Ramses III (1182 a.C. – 1151 a.C.)[2].
Secondo altre ipotesi poco convincenti sarebbero stati gli Ebrei nel lontano XIII secolo a.C. a creare la frittura, quando, dopo essere fuggiti dall’Egitto, si trovarono nel deserto del Sinai.
Nel Levitico si legge che questi dovevano offrire a Dio, su di una padella, un impasto di farina e olio[3].
Altra ipotesi ancora è che la scoperta della frittura sia avvenuta in Cina nel XV secolo a. C., dove già si ricavavano diversi oli dai semi di sesamo, soia o dalla canapa.
Sentiamo parlare molto di cibo fritto nel De Re Coquinaria di Apicio (I sec. d.C.): il verbo frigo-ere nelle sue ricette voleva però dire anche ‘soffriggere’ o ‘arrostire’.
La frittura di Apicio avveniva in liquidi diversi (misto di garum, vino e olio, garum, acqua, aceto e olio, solo garum, solo miele, o vino e garum) non solo nel grasso.
Anche nel De Rerum Natura Plinio il Vecchio scrive di un rimedio per le infermità: “ai celiaci si somministrino tre tuorli d’uovo con un quadrante di lardo stagionato e miele, o anche tre tuorli fritti nell’olio”[4].
Ma a Roma già nel V secolo a. C. durante le antiche feste dette Liberalia[5] che si tenevano il 17 marzo, si festeggiava friggendo.
→LEGGI IL POST SUL CULTO DEL DIO DEL VINO
Si narra infatti che le donne più anziane, con ghirlande di edera sul capo, accendessero i fornelli per le strade e preparassero delle frittelle per ricordare l’introduzione del frumento a Roma.
Queste focacce dette liba o frictilia erano molto simili a quelle che si fanno ancora oggi e nello stesso periodo, ovvero le zeppole.
Dopo aver abolito le feste pagane, il Cristianesimo trasformò le Liberalia nella festa dedicata a San Giuseppe e le frittelle ne diventarono il simbolo[6].
Dunque, il concetto di frittura del cibo ha attraversato molti secoli e interessato molti popoli; per avere una esatta definizione dovremo aspettare il Medioevo, in cui si ‘codifica’ questo metodo di cottura con olio o strutto[7].
Il fritto diventa: “genus cibi dictum a sono quando ardet in oleo”, ovvero ‘un genere di cibo detto così dal suono quando brucia nell’olio’.
Un tempo era lo strutto o la sugna di maiale il grasso più utilizzato per la frittura perché l’olio d’oliva era assai più costoso e prezioso; nelle zone settentrionali si preferiva il burro.
Napoli, ma come del resto tutto il Sud Italia, nella sua grande tradizione gastronomica custodisce decine di preparazioni che prevedono la frittura; la frittura napoletana è infatti quella più famosa in assoluto.
Il re della frittura napoletana è il suo cuoppo, un tripudio di zeppulelle, palle di riso, panzarotti, verdure dorate (zucchine, melanzane) e scagliuozzoli.
Dei panzarotti di patate o crocchè abbiamo parlato in un altro post dedicato alle specialità della cucina napoletana da assaggiare assolutamente (LEGGI IL POST).
Gli scagliuozzoli (scagliuozzi o scagliuzziell’) sono invece triangolini di polenta fritta; sono i fratelli delle più famose panelle siciliane.
Gli scagliuozzoli napoletani sono resi ancora più buoni dal fatto che vengono arricchiti nell’impasto con pepe, cicoli di maiale e formaggio.
‘O cuoppo è fatto avvolgendo a cono un foglio di carta spugnosa gialla o marrone; facile da sbocconcellare e facile da portare in giro è infatti uno degli street food maggiormente amati a Napoli.
Tutti gli elementi del cuoppo assieme a molti altri rappresentano il ricco fritto misto alla napoletana.
Oltre a quelli sopra menzionati troviamo infatti calzoncini di ricotta o di mozzarella, pastecresciute o zeppoline guarnite con filetti di acciughe, baccalà, pezzetti di salame o prosciutto e anticamente c’erano anche i libretti[8].
Le verdure e gli ortaggi cambiano a seconda delle stagioni: dalle zucchine e fiori di zucca alle melanzane, dai carciofi ai peperoni ai funghi, da friggere al naturale o impastellati.
Nel fritto misto alla napoletana troviamo anche i latticini impanati e fritti, come la ricotta, la provola affumicata e la mozzarella.
Infine, si friggono anche le frattaglie (cervello, animelle, fegato) e i pesci (alici fresche, fragaglie, triglie, piccolissimi calamari e cozze in pastella).
Proprio i pesci sono i protagonisti dell’altra versione del cuoppo napoletano, quello ‘di mare’.
Per i palati più raffinati anche la frutta viene fritta, come fettine di arancia e mela in pastella o impanate.
A Napoli l’esperienza gastronomica è davvero ampia; della frittura possiamo sicuramente affermare che ne è la regina e i friggitori delle diverse friggitorie sparse per la città sono maestri in questa tecnica di cottura.
Gli strumenti del mestiere sono tre: un pentolone alto e leggermente svasato, solitamente di ferro, un mestolo di fil di ferro detto votapisci[9] e ‘a vacante, un recipiente con al centro uno scolatoio dove far sgocciolare i fritti.
Bibliografia
Mancusi Sorrentino, ‘A frittura alla napoletana, Edizioni Intra Moenia 2019